The Velvet Underground – Occhi azzurro pallido

Nel farsi e disfarsi di popoli, storie, epoche e nazioni, è normale che il corso degli eventi più battuto e più discusso soffochi i particolari e le singolarità che si discostano dal selciato, finendo col dividere gli anni in grandi macchie e grandi avvenimenti. Accade così che la fornace sessantottina resti oggi nella memoria per aver partorito alcuni tra i mesi più convulsi e febbrili del XX secolo: tra la Primavera di Praga, la Guerra del Vietnam, l’assassinio Martin Luther King e poco dopo quello di Robert Kennedy, il massacro Tlatelolco e l’inizio degli scontri violentissimi tra studenti e polizia risulta difficile, almeno in un primo momento, lasciare spazio ad altro.

E in questo altro si colloca felicemente il terzo, dolcissimo album dei Velvet Underground, prodotto dalla band stessa e registrato nell’autunno del 1968, per vedere infine la luce nella primavera del 1969.

Rispetto ai due album precedenti, la novità più grossa riguarda la sostituzione dell’eclettico John Cale col più morbido e tecnicamente ineccepibile Doug Yule, che sembra incontrare senza fatiche le corde e gli umori di un Lou Reed strabordante, di sentimenti e di riflessioni prima di tutto, ma non per questo meno bandiera del gruppo, di cui si rivela come unico membro realmente insostituibile.

Come accennato poco fa, rispetto alle registrazioni precedenti quest’album si distingue per una generale atmosfera intima e delicata, quaderno di malinconie e amarezze per un innamorato che si ritrova esposto alle gioie e alle sofferenze del suo animo, e non può fare altro che guardarle con sincerità e raccoglierle insieme. All’ascolto, il risultato è quello di una musica profondamente sentimentale, dolceamara e inquieta nel suo continuo perdersi e rimbalzare tra speranze e delusioni.

Perfettamente allineata a questi toni è la tenerissima Pale Blue Eyes, in cui un Lou Reed nostalgico e rassegnato dipinge una delle dediche d’amore più belle della storia del rock, a tal punto intima e segreta che quando fu il momento di registrarla Sterling Morrison disse a Reed «Se io avessi scritto una canzone come quella, non ti permetterei di suonarla».

Anche l’organico rispecchia il testo e le armonie: manca la batteria, sostituita dallo scandire lento e regolare del tamburello. Mancano anche i cori, tanto cari ai Velvet Underground e marchio immancabile per gran parte della musica degli anni Settanta. La doppia chitarra, in mano sia a Reed che a Morrison, amplifica il timbro caldo e ovattato, avvolgendo le parole e uniformando i volumi ulteriormente.

Un breve e inatteso rallentando chiude l’ultima strofa, spegnendo la canzone senza disturbare, senza suggerire che si tratti davvero della fine e senza svegliare l’ascoltatore sopito, cullato dai versi e dalla regolarità della struttura, che potrebbe essere percepita come una ninna nanna, in cui la musica assorbe i pensieri, rallenta tutto e annulla le paure senza preoccuparsi di quel che lascerà; sonno profondo, dolore, pace, un dito che torna sul tasto play.

 

C.