ARITMIE episodio 30

Romare

All'inizio di questi ultimi anni Dieci, proprio dal rivolgersi del polimorfo undergound londinese, sbuca Romare col suo primo ep Meditations on Afrocentrism. Il giovane artista suscita immediatamente grande interesse e delinea una modalità di azione-composizione che risulta da subito personale e riconoscibile. L'elettronica che propone è scura, cupa, avvolgente e trascinante e rispecchia la personalità poliedrica sia del suo fautore, sia della magmatica sottocultura da cui proviene. Musica fatta tanto di sintesi strumentale quanto di costante addizione intellettuale.

 

A seguito di questo seducente esordio Romare ha pubblicato altri album che hanno confermato le aspettative; è interessante notare come il suo lavoro, ed in particolare l'album Projection di cui oggi proponiamo un brano, sia pensato come un collage. Come l'artista americano Romare Bearden da cui ha preso in prestito il nome e al quale restituisce una centralità nello stile delle sue copertine, Romare agisce secondo una linea che nella macro area elettronica è già ampiamente codificata: campionamento e riassemblamento. Qui però, come in Bearden, c'è in maniera molto specifica una ricerca di stilemi afroamericani ritagliati ed incollati lungo nuove linee. Il risultato è musica di base danzereccia, con un piede ben piantato nella scena downtempo, ma raffinata, affilata, intellettualmente critica e mordente.

 

Una ricerca sulle radici creative africane, afroamericane ed ancestrali è sempre un ottimo punto di partenza per un lavoro politico in questo senso; idea efficace tanto quanto sputtanata, riproposta in mille salse, spesso anche poco convincenti. Se a riguardo non si può parlare di manovra geniale, va però considerato che quando, come in questo caso, l'idea va a braccetto con personalità, convinzione e attento senso critico nella ricerca, è proprio nelle sfumature e nelle pieghe che ci accorgiamo di essere difronte ad un risultato di notevole spessore.

 

Un passaggio di spazzole sul rullante che sembra provenire da Philly Joe Jones si imposta come base di un flusso ritmico assemblato insieme a particine vocali, piccoli stacchi, pezzi di altri beat, campionamenti di sezione fiati, tutto sciolto attorno ad un synth che un passo alla volta finisce per fagocitare tutto il ritmo in una stasi sospesa. Quando però riattacca il groove possiamo anche dimenticare le finezze, la ricerca, il gusto intellettuale e lanciarci in un qualsiasi dancefloor immaginario: la pista del Deep Funk di Londra o il tappetino della doccia di casa.

 

G.