ARITMIE episodio 10

Algiers

«Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. L'indifferenza è il peso morto della storia». È bene ricordare che il lucido pensiero di Antonio Gramsci, per quanto suoni ormai talmente ovvio da essere talvolta relegato a qualche antologia aforistica, di fatto non lo è.

Continua a non essere ovvio che i danni del non agire e del far finta di nulla siano spesso i più grossi e i più duraturi; in maniera meno lampante rispetto all'attuazione di un pensiero deviato, ma sul lungo orizzonte ugualmente disastrosi.

 

Algiers è un quartetto di musicisti americani che ha fatto manifesto di queste considerazioni e a partire dal primo album omonimo del 2015 si è speso in produzioni che non hanno potuto lasciare indifferenti. Il dito è puntato dritto contro le malefatte coloniali, post-coloniali, schiaviste e razziste perpetrate dal potere bianco, ma allo stesso tempo è puntato contro chi pone sé stesso al di là delle parti, chi si ritiene escluso dalla questione, chi dà per scontati i risultati ottenuti con sangue e sudore di altri e chi fa finta di non vedere: contro il silenzio del mondo circostante

Algiers è una band che cerca di spostare la linea di confine facendo muovere chi sta fermo, facendo impegnare chi non si è impegnato, aprendo gli occhi a chi li aveva chiusi, risvegliando anime sopite e scatenando tutti a sostegno di una feroce apostrofe al potere: non è tempo di neutralità, scegliete da che parte stare. E a seguire, ancora: noi saremo pronti, senza mollare di un centimetro aspetteremo il momento in cui l'establishment criminale crollerà e ci faremo sentire.

 

L'album Algiers è un blocco di marmo piazzato tra le mille sfaccettature del rock, del post punk e del noise. L'utilizzo di vecchi cori degli schiavi, una elettronica incastrata di cesello e (vio)lenti groove fanno da base alla dirompente voce di Franklin James Fisher e alla rumorosissima chitarra di Lee Tesche. Se musicalmente possono affiorare il miglior Moby o gli Eurythmics più cupi, tra le grosse influenze della band sono molto marcate quelle non musicali: la letteratura, la filosofia e la storia. Grazie ad esse, tra le citazioni di Aldous Huxley e gli echi orwelliani, tutti i testi si ritagliano uno spazio proprio a cavallo tra la poesia e l'invettiva. Riportiamo di seguito una strofa del brano di oggi, Blood, che più di tante spiegazioni chiarirà il punto. Voi da che parte state?

 

Four hundred years of torture

Four hundred years a slave

Dead just to watch you squander

Just what we tried to save

Now death is at your doorstep

And you're still playing games

So drown in entertainment

Cause all our blood is in vain

 

Quattrocento anni di tortura

quattrocento anni di schiavi

morti per vederti dissipare

quel che noi abbiamo provato a salvare

adesso che la morte è alla porta

e tu stai ancora giocando

annegato nell'intrattenimento

tutto il nostro sangue è stato versato invano.

 

G.