ARITMIE episodio 33

Steve Coleman

Immaginiamo di avere tra le mani un’enorme saliera e di poterci infilare in dosi massicce il Miles Davis elettrico e pensoso di fine anni ’60, la furia di Jack DeJohnette, la libertà radicale di Sam Rivers e la meticolosità maniacale di Herbie Hancock. Fatto? Aggiungiamo due guantoni che massacrano un sacco da boxe, la rabbia dei bambini di Harlem, le urla di uno stadio gremito di tifosi e una Chevy Nova lanciata a tutta velocità sopra un ponte sospeso sull’oceano. Adesso scuotiamo il braccio con forza e proviamo a cospargere dalla testa ai piedi il nostro ragazzone di Chicago.

 

Perché ascoltare Steve Coleman è in buona parte questo: essere travolti.

Che si tratti del primo incontro o che la sua musica sia già passata attraverso le orecchie a più riprese, la forza dell’impatto resta invariata. E diventa impossibile fermare il turbinare dei pensieri, ignorare la catena di sensazioni che salgono dalla pancia come i fumi di una palude o, più semplicemente, chiedere alle spalle di smettere di ondeggiare. Nonostante una lunghissima carriera e centinaia di sessioni in studio, non importa quale pezzo stia uscendo dalle casse; se di mezzo c’è Steve Coleman, possiamo stare certi del fatto che neanche un secondo andrà sprecato, che niente verrà lasciato al caso.

 

Probabilmente questo si dirà di lui anche tra cinquanta, cento anni. Non si potrà fare a meno di continuare a rimanere a bocca aperta davanti alla compattezza glaciale con cui le linee si stratificano una sull’altra; di trovare grande materialità proprio in quelle pennellate che vorrebbero invocare astrattezza; di ammirare il gioco di ruoli che fa di una voce una batteria, di un sassofono una chitarra e di un basso una tromba.

 

Con una certa tranquillità, possiamo dire che ogni mattoncino della sua discografia sia il punto di ritrovo di studi, incontri, turbe e agitazioni del momento, sviscerati e snocciolati fino in fondo.

Oggi puntiamo gli occhi su un lavoro del 2012, Functional Arrhythmias, registrato insieme a Jonathan Finlayson, Anthony Tidd, Sean Rickman e Miles Okazaki.

 

Il grano di sale da cui prende forma tutto il resto, è la certezza dell’esistenza di una musica prima, una musica irrinunciabile su cui solo in un secondo momento possono innestarsi le altre. Si tratta dei ritmi e delle aritmie del corpo umano, di quegli impulsi primordiali che sostengono la vita e battono il tempo del visibile e dell’invisibile, dell’immenso e del microscopico.

Vene, vento, reni, polmoni, passi, cellule, pensieri, arterie, unghie, sospiri, ossa, luce e cartilagini: tutto è distinto e tutto è parte dello stesso sangue, che pulsa senza sosta e fa del jazz e della libera improvvisazione il cuore verso cui e da cui le Functional Arrhythmias si raccolgono e si dipanano.

 

La traccia Cardiovascular è questo: il pompare profondo e inarrestabile dell’abisso è il motore, la vibrazione di fondo, la miccia che continua a bruciare. Sopra di esso, le onde si accavallano, si spezzano in forme geometriche e tornano a compattarsi con l’abisso.

Il corpo umano si fa musica e la musica nuovo sangue per i corpi; quelli che ci sono e quelli che verranno.

 

C.