ARITMIE episodio 19

Antonello Salis

Se su certe pennellate o certi versi basta lanciare un colpo d’occhio per individuarne l’autore, lo stesso si può sicuramente dire di certe mani quando incontrano lo strumento: il peso delle dita sui tasti, il guizzo che lancia una frase e come un boomerang la riafferra in volo, il gioco tra due idee che si incontrano, la stravaganza inconfondibile della libertà. Quando si tratta di Antonello Salis il riconoscimento è fulminante ed è sufficiente un secondo per individuarlo e scoprirsi con un angolo della bocca curvo verso l’alto, già intenti a immaginarlo in movimento sul palco e sulla musica. Non fanno differenza contesti o ensemble; averlo davanti agli occhi e sentirlo suonare è sempre un momento di ricchezza e suggestioni straripanti, che attecchiscono nel corpo e nella fantasia rinnovandosi come una cascata in piena, senza ripetersi e senza lasciare spazio a sensazioni che possano risentire in qualche modo del “già visto” o “già sentito”.

«Ogni pistola ha la sua voce, e questa la conosco» direbbe il Biondo di Sergio Leone; e lo stesso si può dire del nostro Salis quando porta le mani sulla tastiera.

 

Anche per quel che riguarda lo stile, affidargli una definizione calzante sembrerebbe essere un compito risolvibile in pochi istanti; eppure, più ci si addentra nella sua musica, più la quantità di riferimenti cresce, così come crescono le storpiature, le improvvisazioni folgoranti, l’identificazione nell’altro e l’urgenza costante di esprimersi per intero. Più che di stile, con Salis si può quindi parlare di un’energia che sgorga dall’estrema gioia di partecipare al qui e ora, braccandolo senza impicci e senza preoccupazioni per quel che è stato e per quel che verrà.

Nell’ascoltarlo, la vera sfida è trovare musica che non faccia parte in alcun modo della sua, che arrivi come la tessera mancante di un puzzle appeso al muro. Perché con Salis c’è proprio tutto, a volte nascosto in una nebbia lontana, in un’eco sporca o in un cambio di tempo, ma proprio tutto. Per usare le sue parole: «Ora c’è questa ossessione del piacere a tutti: è una stupidaggine. Ci sarà sempre qualcuno a cui non piacerà quello che fai. Non è grave. L’importante è essere liberi: devi suonare quello che vuoi e chiamarlo come ti pare. Ti chiameranno e apprezzeranno per quello che sei.»

 

Passando per le collaborazioni con Baba Sissoko, Paolo Angeli, Jérôme Casalonga, Giancarlo Schiaffini, Simone Zanchini e Vincenzo Deluci, solo per citarne alcuni, anche l’ultimo decennio musicale è stato caratterizzato da un’agenda fittissima, in cui ogni lavoro meriterebbe un capitolo a sé. Oggi puntiamo il dito su un album pubblicato nel 2018 insieme al trombettista Vincenzo Deluci, Soldati semplici, che possiamo definire come un lungo viaggio in esplorazione continua, senza mete predefinite né possibilità di fare previsioni sul tragitto. L’elaborazione sonora è il cuore pulsante da cui prende forma e si dirama il dialogo, tracciando immagini e suggestioni che sgorgano impetuose, ribollono, si diradano, implodono, restano incantate e risorgono, senza mai sfiorire.

 

Come ormai da consuetudine, anche in questo caso la sola fisarmonica a Salis non basta e partecipa al gioco una corolla di fischiettii che ricalcano il movimento dei tasti, mantenendosi però sempre a un passo si distanza. Lo stesso si potrebbe dire di Deluci, che affonda nello strumento con l’intento estrarre a mani nude tutto ciò che scaturirà dalla narrazione, e non articolando quest’ultima tra le possibilità suggerite dallo strumento stesso. Entrambi, perciò, trattano il tappeto sonoro di partenza come magma incandescente, pronto a scorrere e a ignorare gli ostacoli lungo la discesa. I diciannove minuti di La diana sono questo: una lunga narrazione che ci immerge in un panorama che a volte è un gioco ironico e delicato, altre uno scroscio inarrestabile e altre ancora una danza ipnotica di cui non sapremo parlare quando ci saremo risvegliati. E per chiuderla con le sue parole: «Con la musica vorrei lasciare delle buone sensazioni, un buon feeling, vorrei che la gente stesse bene quando mi ascolta, almeno in quel momento. […] Io mi ci metto in maniera umile: è questo quello che ho!»

 

C.