ARITMIE episodio 7

Bill Frisell

Le parole scappano, sono libere. Lasciano che a nutrirci sia la convinzione di poterle controllare meglio man mano che il tempo

passa; e così più invecchiamo, più viviamo e più intendiamo la storia delle civiltà come progresso, più accade che sentiamo

appartengano a noi come a nessun altro prima. Sarebbe bello poter assistere alle appetitose risate che parole di migliaia di anni farebbero dinanzi alla ingenua, presuntuosissima semplicità della nostra impostazione di pensiero. Le parole sono libere, noi soltanto liberi di usarle.

In quella che Thomas Stearns Eliot chiamava “l’intollerabile lotta con le parole e col loro significato”, possiamo inserirne una che dall’antica Grecia ha attraversato bocche, evi, continenti, lingue e discipline senza perdere di valore o di varietà d’utilizzo: armonia, che contiene al suo interno una radice affine a quella di un verbo che significa “collegare, connettere, comporre”.

 

E chissà se Bill Frisell aveva in mente questo insieme di accezioni mentre intitolava Harmony l’ultimo album, diviso con Petra Haden (voce), Hank Roberts (violoncello e voce), Luke Bergman

(chitarra acustica e baritona, basso e voce). L’ascolto, più che confermare questa direzione, sembra coinvolgerla con amorevolezza e con incondizionato rispetto per il ruolo che ogni suono, ogni accordo e ogni interazione porta con sé. La chitarra di Frisell non si pone mai come guida, lo spazio sonoro è contenuto e quello lasciato all’ascolto dell’altro non viene mai abbandonato. Le voci vestono una linearità senza tempo, e per questo sempre valida. Ogni parte

gioca una danza di equilibri sottili, che si frantumerebbero all’istante se un tassello della giostra iniziasse a girare più velocemente. A tenere in piedi la struttura sono connessioni di cristallo che non ammettono strumenti leader, assoli o incursioni fini a se stesse; la legittimazione della forza avviene attraverso la scelta di non usarla. Il risultato è una condivisa anarchia, nel significato più puro del termine: pacifica e...armonica.

 

Le quattordici tracce che compongono l’album sono nel complesso un omaggio alla storia della musica americana, in particolare a quella a stelle e strisce, che raduna i propri filoni principalmente tra la canzone folk, il jazz del cosiddetto Great American Songbook e le polifonie moderne rielaborate sullo stampo della musica europea. Armonia è perciò anche connessione tra i generi e i nomi che sono passati, spesso senza nemmeno incontrarsi; è l’unione di tempi e di mondi senza accentramenti né prevaricazioni; è sfidare la precarietà della vita consegnandole lo scettro di elemento insostituibile.

 

Di Harmony questo arriverà più di ogni altra cosa e ciascuna delle tracce dell’album risulterà coerente con quanto detto finora. In particolare, in Fifty Years si potrà sentire come anche le voci abbiano un ruolo tipicamente strumentale: non vengono pronunciate parole, l’unico suono ad essere emesso è una vocale che parte dal fondo della gola e non muta mai timbro né intenzioni. La tessitura prende il via con la sola chitarra e si inspessisce con l’aggiunta progressiva di una linea alla volta, finché ogni filo non si allontana disgregandosi nello spazio, fino a perdersi.

All’ascoltatore nulla è richiesto se non presentarsi con mente pulita e, come ha recensito la rivista No Depression, per chi vi riesce «i risultati sono sorprendentemente belli, inaspettatamente avvicinabili. Questo rispettoso mix di canzone folk americana, di jazz e della nuova musica polifonica sembra davvero musica sacra.»

 

C.