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Tutto è concesso e tutto è ammesso quando si parla di rock, ancor più se il calendario corre su luglio 1968 e ci si trova ad una festa a casa di Joni Mitchell: può accadere persino che David Crosby, appena allontanato dai Byrds, Stephen Stills, reduce dagli ormai defunti Buffalo Springfield e Graham Nash, insoddisfatto della qualità lavorativa degli inglesi Hollies, inizino a cantare insieme “You Don’t Have to Cry”, rivelando un’affinità vocale che in quanto a timbro, amalgama, coesione e presenza non avrebbe potuto essere più alchemica di così.

Dopo poco più di un anno arriva il battesimo di fuoco: alle tre del mattino del 18 agosto il trio sale sul palco del festival di Woodstock, pronto a coprire una lunghissima scaletta che durerà ben sessanta minuti, davanti agli occhi di oltre trecentomila persone. Qualche problema forse per dei musicisti esperti e attivi, nonché ex membri di band note e stimate? Probabilmente sì, dal momento che l’applauso entusiasta alla fine del primo pezzo vide Stephen Stills avvicinarsi al microfono e dire «Thank you, we needed that. This is the second time we've ever played in front of people, man... we're scared shitless!»; «Grazie, ne avevamo bisogno. Questa è la seconda volta che suoniamo in pubblico...ce la stiamo facendo sotto!».

L’esibizione woodstockiana fu nel complesso ottima, arricchita da alcuni interventi di Neil Young e sostenuta con coraggio e pienezza fino alla fine. E nonostante fossero trascorsi meno di due mesi dalla pubblicazione del primo album registrato dal trio in studio, non vi è traccia di immaturità artistiche, rigidità nella gestione della strumentazione, incertezze nel linguaggio o nella forma. Le armonizzazioni vocali arrivano anzi poderose e luminose, i testi sono convincenti e le sonorità efficaci, già vestite di quello stile lineare, limpido ed essenziale che caratterizzerà per sempre l’impronta lasciata dal gruppo non solo nella rovente estate del ‘69, ma nella storia della musica. 

Con un occhio di riguardo per il repertorio country e folk, Crosby, Stills & Nash riuscirono a sintetizzare elementi del rock, del blues, del jazz, delle antiche ballate popolari, dei ritmi e delle armonie della tradizione, condensandoli in una musica classificabile in ognuno e in nessun genere, una musica spogliata di tutto il superfluo, senza fronzoli, senza maschere, incorruttibile.

Un capolavoro di chiarezza nella struttura e di vivacità ed essenzialità nelle linee vocali resta la bellissima “Suite: Judy Blue Eyes”, scritta da Stephen Stills ed eseguita sia in apertura dell’album che della scaletta al festival di Woodstock. 

Suddivisa in quattro distinti momenti musicali, la canzone si articola nello stile dell’antica suite settecentesca, costruita su più movimenti ritmicamente alterni, spesso proprio quattro. 

Da una prima sezione accattivante ed energica, strutturata in strofe e ritornelli come da tradizione, passiamo ad un secondo momento più morbido e disteso, tra armonie vocali ben pennellate. La terza sezione riaccende il ritmo e il buonumore sulle corde spigliate e fantasiose della chitarra, fino a sfociare nella coda, che chiude il brano sui ricami freschi e agili del coro, tanto più vivi e raggianti quanto più efficaci e attraenti, che accompagnano uno spagnoleggiante Stills fino alla chiusura, netta e snella su un giro di accordi che sarebbe potuto durare all’infinito.

Piena, rotonda, brillante e saporita, “Suite: Judy Blue Eyes” avvolge, accarezza e travolge, salda su quella semplicità espressiva ben lontana dall’essere ingenua, monotona e superficiale, ma che anzi riesce a fare della genuinità e della bellezza dei contenuti la propria forza, rendendosi indimenticabile.

 

C.