Genesis – Se una notte d’inverno un produttore

Godalming, contea del Surrey, inverno 1967. Nella prestigiosa Charterhouse School, una sessantina di chilometri a sud-ovest di Londra, un gruppetto di studenti con brevi esperienze musicali alle spalle si fonde in una sorta di collettivo artistico senza nome e senza precisi obiettivi, registrando in uno studio amatoriale una demo contenente brani inediti. Jonathan King, ex studente divenuto ora produttore per la Decca Records, torna a far visita alla scuola durante lo stesso inverno e riceve una copia delle registrazioni da un amico dei componenti del gruppo, troppo impacciati per avvicinarsi a lui e consegnargliele di persona. Come ci racconta il giornalista Armando Gallo nel suo Genesis: I know what I like, dopo aver ascoltato la demo King rimane molto colpito, in particolare dalla voce di Peter Gabriel, e decide così di mettere i cinque ragazzi sotto contratto per un anno. Tuttavia, man mano che il lavoro in studio procede, i suoi atteggiamenti si fanno sempre più rigidi e costrittivi, traducendo inevitabilmente l’inesperienza della controparte in larghissime libertà per lui: pensa così a Genesis come nome per la band; coinvolge all’insaputa del gruppo i compositori Arthur Greenslade e Lou Warburton, che inseriscono arrangiamenti per archi e ottoni; insiste affinché Chris Stewart venga sostituito dal batterista Jonathan Swift, in modo tale da rafforzare la sezione ritmica; struttura l’album in canzoni brevi e tendenzialmente orecchiabili, con l’intento di inseguire lo stile lezioso tipico di Bee Gees e Carpenters e altri gruppi dalla vendita facile; propone temi biblici come filo conduttore dell’album, intitolato From Genesis to Revelation – ideando un percorso musicale che vada cioè dalla Genesi fino all’Apocalisse – anche se alla fine solamente tre dei tredici brani rispetteranno tale proposito.

 

Questo quadro di fatiche che puzzano di mercato, di vincoli, di creatività dimezzate, di potere e di malizia, non ci consente di individuare il punto esatto in cui i Genesis nascono e diventano la musica che per decenni sarà il marchio di fabbrica di album impeccabili, concerti esplosivi e scritture precise e ricercatissime, togliendoci dalle mani gli strumenti utili a poter tracciare un confine netto. Sarebbe comunque del tutto sbagliato tapparsi le orecchie di fronte a From Genesis to Revelation additando il produttore Jonathan King come unico responsabile dei contenuti. Anche questa volta, perciò, teniamoci saldi al centro della carreggiata e guardiamo all’album d’esordio di Gabriel e compagni per quel che è: un acerbo e molto promettente affacciarsi alla musica, alla propria espressività e agli sforzi necessari per renderla efficace; il tutto spintonato e un po’ ammaccato dalle mani del direttore del cantiere, a cui il gruppo riesce comunque a sopravvivere nutrendo il tentativo di non ridursi mai ad un unico timbro dominante, di non risultare prevedibile nell’andamento di brani e intermezzi e di non relegare ad uno sfondo indefinito l’utilizzo dei cori, ai quali vengono assegnati con buon criterio diversi ruoli a seconda delle necessità comunicative e di quelle della struttura delle strofe.

 

Nel pezzo Am I very wrong? gli improvvisi cambi di scenario, il focus imperniato sulla voce, la nudità degli strumenti in acustico e l’impastarsi granuloso dell’insieme lasciano nell’aria le tracce di quel che sarebbe arrivato negli anni a venire, consentendoci di mettere da parte senza rancori la curiosità per il risultato che sarebbe potuto uscire se il gruppo avesse avuto piena libertà o un altro produttore. Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore scrive: «Come stabilire il momento esatto in ci comincia una storia? Tutto è sempre cominciato già da prima, la prima riga della prima pagina d'ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci o cento pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo.»

 

C.