Il primo giorno di primavera

Nel primo giorno di questa primavera 2019, il pensiero non può che correre indietro fino ai Dik Dik, che cinquant’anni fa pubblicavano “Il primo giorno di primavera e altri successi” forti dello zampino di Mogol e Lucio Battisti. Il brano di punta dell’album era lo stesso che dava il titolo al 33 giri e ancora oggi resta uno dei pezzi più noti del gruppo, costruito nel pieno stile delle canzoni d’amore che in quegli anni arrivavano dall’Inghilterra e più in generale dai Paesi anglofoni: bastano i primi secondi di ascolto per scorgere nell’organo hammond lento e malinconico la musica dei Procol Harum. Non sono quindi un caso le scelte timbriche e armoniche dei Dik Dik: “Il primo giorno di primavera” si inserisce infatti in quella moda made in Italy che consisteva nell’ammiccare al pop-rock inglese e americano; moda che ancora oggi non si è esaurita e di cui troviamo numerose tracce soprattutto nella cosiddetta “musica di consumo”.

Tipico degli anni Sessanta e Settanta era realizzare cover di successi inglesi col testo in italiano: gli stessi Dik Dik registrarono la cover di “Whiter shade of pale” dei Procol Harum col titolo “Senza luce”, e scorrendo la lista degli artisti del tempo troviamo numerosi altri esempi: I Ribelli realizzarono la cover di “Delilah” di Tom Jones, l’Equipe 84 quella di “Bang bang (my baby shot me down)” di Cher, Adriano Celentano quella di “Stand by me” di Ben E. King, Patty Pravo di “Take a walk on the wild side” di Lou Reed e così pure Mina, I Giganti, Ornella Vanoni, I Camaleonti, Caterina Caselli e altri ancora, per non parlare degli artisti stranieri che traducevano e cantavano i loro testi in italiano appositamente per il mercato nostrano, come i Rolling Stones con “Le mie lacrime”, Stevie Wonder con “Il sole è di tutti” e David Bowie con “Ragazzo solo, ragazza sola”.

Visti i numerosi esempi, è importante sottolineare quanto la scena italiana di quegli anni godesse di grande fermento e di un continuo scambio con quella internazionale, vivendo di collaborazioni e intrecci costanti: la contaminazione del linguaggio è insita nel linguaggio stesso ed è carburante fondamentale per la sua evoluzione. Considerando dunque la musica un linguaggio, la commistione e compresenza di stili, inflessioni, provenienze e direzioni differenti risulta inevitabile e foriera di risultati sempre diversi e in costante aggiornamento. A questa considerazione segue quasi automatica l’enorme difficoltà del poter definire una musica trattandola come se avesse un passaporto: “musica italiana” cosa significa? Se davvero i vincoli fossero il venire registrata, prodotta e scritta in Italia e l’essere cantata in italiano da italiani, allora il cerchio si restringerebbe enormemente e una grande parte della musica di cui abbiamo parlato sopra sarebbe fuori dal cerchio. La scena musicale attuale, come lo era quella del 1969 e allo stesso modo quella di secoli fa, è frutto di contaminazioni che arrivano da lontano e non sono spesso nemmeno indagabili, soprattutto nell'epoca della musica liquida, dell’mp3, di Spotify e di YouTube che insegna come effettuare registrazioni domestiche e da lì farle arrivare in qualsiasi parte del mondo, senza dogane, francobolli o dazi.

Detto ciò, la recente proposta di legge dell’onorevole Alessandro Morelli risulta completamente inattuale, fuori luogo e controproducente: stando a quanto scritto nell'articolo 2 comma 1 della proposta, “Le emittenti radiofoniche […] riservano un terzo della loro programmazione giornaliera alla produzione musicale italiana, opera di autori e di artisti italiani e incisa e prodotta in Italia.” Ma se un brano fosse eseguito, registrato e prodotto in Italia da italiani, questo non escluderebbe che potrebbe essere cantato in arabo. Sarebbe comunque musica italiana? E come la mettiamo poi con l'italianità di un album cantato in italiano ma registrato all'estero? Non è un fatto irrilevante, dal momento che molti tra i grandi nomi italiani adottano questo comportamento da decenni. Inoltre, se il produttore, l'autore, i musicisti fossero tutti stranieri? Basterebbe il testo in italiano per garantire un passaggio alla radio?

La nostra posizione resta perciò saldamente ancorata a quella di un interscambio artistico e musicale dal respiro mondiale, anti-campanilistico e anti-confini, nella convinzione che il vivere, frequentare e confrontarsi con musicisti e ambienti artistici presuma e necessiti di contaminazioni continue, senza commi né bandiere.

 

C. G.