In questo giorno di festa nazionale, celebriamo la nostra Repubblica saltando di ben 12000 chilometri in direzione sud-ovest, fino ad arrivare in Cile. In questo lembo di terra stretto tra l’oceano e le Ande, nel 1967 alcuni studenti iscritti all’Università Tecnica di Santiago decisero di dare vita ad un gruppo musicale che sin dai primi esperimenti si dimostrò solido e forte nella varietà di elementi, strumenti e contenuti, e che riuscì a convogliare insieme esperienze umane e politiche, influenze e peculiarità della tradizione, volontà e velleità artistiche fino a rendere impossibile circoscrivere il proprio linguaggio ad una determinata corrente stilistica.
Anche il nome nacque da un’unione, quella del dio inca del sole e di una cima andina, dal probabile significato di “aquila dorata”: Inti-Illimani.
Dopo alcune tournée in Sud America, nel 1969 il cospicuo quantitativo di lavoro messo a punto dal gruppo fruttò tre diversi album: il disco d’esordio Si somos americanos registrato in Bolivia, lo split album A la resistencia española/A la revolución mexicana condiviso con il cantautore cileno Rolando Alarcón e l’omonimo Inti-Illimani, pubblicato dalla Jota Jota e considerato il primo vero lavoro solistico del gruppo. Ricchissimo di combinazioni timbriche, vocali e strumentali (oltre all’immancabile chitarra classica e alle maracas trovano largo spazio bandurrìa, charango e cuatro tra i cordofoni e siku e quena tra i flauti di canna) unite ad una padronanza tecnica capace di offrire arrangiamenti insoliti e virtuosismi eseguiti su strumenti popolari, quest’album coniuga ottimamente l’antica musica andina proveniente dalla tradizione quechua e da tutta quell’area dominata dagli incas prima dell’invasione europea con la Nueva Canción Chilena, nata negli anni sessanta dopo la Rivoluzione Cubana come vero e proprio movimento culturale dedito al recupero e alla rinascita del folklore cileno e sudamericano, resosi ora arma di lotta sociale e di impegno politico.
Impegno che costò molto caro a numerosi artisti e che rese gli Inti-Illimani esuli forzati dopo il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet. E mentre la dittatura si copriva del sangue e delle teste di migliaia di cittadini morti ammazzati, rapiti, imprigionati e torturati, fu proprio il nostro Paese a riconoscere il diritto di asilo politico ai membri del gruppo, che dal 1973 al 1988 vissero nella capitale, continuando anno dopo anno a cantare la resistenza e la libertà e ad inneggiare al potere del popolo, sostenendo strenuamente le campagne per la restaurazione della democrazia fino al rientro in patria.
Nella storia della musica e delle civiltà, è questo uno degli esempi più coraggiosi e più crudi di totale adesione dell’arte alla vita politica e di partecipazione alla lotta contro ideali, direttive e comportamenti messi in atto dal governo e dalla sua rappresentanza: rappresentanza, quella di Pinochet, che senza possibilità di sorta e di giudizi contrari si imbrattò di crimini contro l’umanità, contro il suo popolo e contro quell’inviolabilità fisica e morale inscritta nel concetto stesso di persona. Negli anni della dittatura, la musica si fece allora per il Cile sia martire che bandiera di libertà, di rivendicazione e di resistenza; parola, quest’ultima, che dovrebbe risultare familiare anche a noi figli di quel ventennio fascista, militarista e squadrista violento, disumano e anticostituzionale, portatore di morte, di ignoranza, di paura e di strazio economico e sociale.
Ridurre perciò a un “derby tra fascisti e comunisti” il sacrificio degli Italiani morti per estirpare la dittatura e il tarlo nazista della ignobile Repubblica di Salò equivale a sputare sulla vita, sulla fratellanza, sulla pace e sulla libertà. Assuma le proprie responsabilità chi oggi non riconosce e non onora la Resistenza, con la luz de su recuerdo seguiremos adelante.
C.