ARITMIE episodio 29

Sean Khan

Tra una puntata e l’altra, in numerose occasioni abbiamo avuto modo di constatare come l’inclusività umana e artistica e la mancanza di preoccupazioni legate al lato più istituzionale della tradizione, vadano di pari passo con la difficoltà di poter inquadrare nomi e album in un determinato genere musicale. Il che, semplicemente, non fa altro che chiudere il cerchio, confermando il fatto che l’arte scrupolosamente e realmente autonoma sia quella intenta a conservare intolleranza solo nei confronti dell’intolleranza stessa.

 

Un esempio di grande propulsione in questo senso, è la traversata oceanica del londinese Sean Khan, che dopo un passato di rifiuti accademici perché ritenuto troppo crudo nel suonare, ha pensato bene di mettersi in proprio e di voltare le spalle a quella frangia sassofonistica settaria e leziosa che tanto ama pensarsi moderna e innovativa, ma che al di là di elitarismi di maniera ha ben poco da offrire. Così, facendo di quella presunta crudezza un invito all’originalità e un input stilistico per album e concerti, nel 2018 si è visto diretto in Brasile per mettere a segno Palmares Fantasy, un progetto da realizzare nientemeno che con il mago Hermeto Pascoal.

 

Una carriera nata dal rifiuto, che con magnifica cocciutaggine ha fatto dell’apertura e dell’inclusione a trecentosessanta gradi la sua anti-accademia: un agglomerato magnetico che a una indubbia - ma non manifesta - presenza di free jazz e di elementi delle fusioni anni ’70 di Albert Ayler e Archie Shepp, allaccia una creatività frenetica, intessuta di samba, sertanejo e una sorta di post-bossa nova affamata di indipendenza. I medesimi pruriti che hanno permesso allo stesso Hermeto di dare forma a sonorità impensabili, cucendo sulla natura più selvaggia la follia dei sogni e degli istinti più primitivi. E sull’onda di questi istinti, Palmares Fantasy guarda dritto negli occhi un mondo in crisi: vanitoso e forte delle differenze più misere. Senza giudicarlo, lo agguanta per le viscere e lo fa rotolare a proprio piacimento in quella joie de vivre che non è semplicemente un godimento allegro della vita, ma una sfrenata esultanza dello spirito di fronte alla sovranità insaziabile dell’esistenza.

 

La title track ne è un potente esempio; un universo in cui batterie e percussioni a volontà incontrano sassofono, flauto e trombone, mentre un quartetto d’archi si ritrova alle prese con un Fender Rhodes, a sua volta incalzato dalle linee del contrabbasso su cui svettano fischietti, fischiettii e gargarismi.

La motilità con cui Khan guida torrenti di note, oscillando e contrastando il tempo e riafferrandolo senza perdere agilità e rotondità di suono, è un saluto caloroso alla sua isola e a quel modo di fare musica che lamenta la fine dei bei tempi senza contribuire in alcun modo a colorare il presente.

Una bella noia, con un antidoto molto semplice: musica sì, etichette no. Né di genere né di palazzo.

 

C.