Sly and the family Stone  - Yeah yeah yeah!

Nel mare ribollente del funk, sul finire degli anni 60 si affacciava un gruppo davvero singolare: Sly and the family Stone. Se eravamo abituati alla presenza scenica di James Brown e al suo show perfettamente studiato in ogni dettaglio, con Sly Stone la logica viene ribaltata: eccentricità spinte all'ennesima potenza, costumi colorati e luccicanti, balli sconclusionati e costante movimento, senza l'ombra di una coreografia. Sly conduce la sua “family” come un grande collettivo di libera espressione ed esplorazione sia sul lato scenico che su quello musicale: cori disordinati, scoppiettanti sezioni fiati, solismi inconsulti, frasi libere che prendono vita dal magma, tutto sostenuto da un groove muscolare e solidamente piantato. Questa libertà esplosiva non è però mascheramento di qualche mancanza strutturale, bensì un modo quasi politico di incitare ogni membro a prendere iniziativa ovunque ne senta il bisogno. La band, attivamente schierata contro le discriminazioni razziali e la segregazione, usa questa sua attitudine travolgente per veicolare tematiche sociali e politiche. Tutto è spinto al limite, tutti insieme e fortissimo.

 

Sly and the family Stone produssero nel 1969 il quarto album “Stand!” che fu il loro più grande successo, capolavoro indiscusso della musica funk e che gli valse la partecipazione al festival di Woodstock (unica band di black music presente). Di lì a poco avrebbe preso vita la scena del P-Funk, del delirio spaziale di George Clinton e dei Parliament Funkadelic. Sly fu uno dei padri di quella scena e con “Stand!” la direzione risultò subito ben chiara.

L'album è costruito su una solida base funk, ma si colora della potenza del rock e della mistica del blues; la provenienza soul e la presenza di rimandi al gospel e alla musica di chiesa vengono affiancati ad andamenti collettivi orgiastici e il risultato rispecchia alla perfezione la personalità caleidoscopica del leader: soggetto delirante, incontenibile, inaffidabile, esplosivo e autodistruttivo, libero ed incontrollato, sensibile e violento, poeta fluido e tossico senza posa. Un classico esempio di giovanotto americano no?

 

Del brano che abbiamo scelto oggi: Sing a simple song, non diremo nulla. Non parleremo di quella tensione che sostiene l'urlo di apertura, non parleremo dell'esplosione del riff di basso più campionato della storia, non parleremo del ritmo travolgente, della sezione fiati appuntita, dell'acidissimo suono dell'organo o degli ingranaggi propulsivi del groove; non diremo nulla della travolgente vocalità dei solisti né dei cori carichissimi. Non parleremo di poetica del testo, di struttura, di spazi solistici, di personalissime scelte di suono, di incastri ritmici, di tempi e di controtempi. Non citeremo nemmeno i mille gruppi che hanno imitato, coverizzato e campionato questo brano immortale né tutti gli artisti che hanno tratto ispirazione da Stand! fino al suo cinquantesimo compleanno.

Diremo solo questo: fate partire la canzone ed abbandonatevi al ritmo.

 

State già battendo il piedino?

 

G.