ARITMIE episodio 13

Matthew Shipp, Bobby Kapp

Tra le sconfinate varianti qualitative e quantitative che ogni formazione musicale può portare con sé, va riconosciuto come poche combinazioni siano per l’orecchio al contempo stabili e intriganti quanto il duo. La pressione e il coinvolgimento sono immediati e totali, al pari di un match in cui l’avversario è spoglio di quella rivalità intesa in senso giornalistico e si rende necessario alla costruzione di un dialogo che accolga, sostenga e riproponga ritmi e contenuti. Una sorta di specchio, che si fa più limpido man mano che l’intensità e la profondità dell’incontro aumentano, consentendo di inspessire l’intesa sempre di più.

Se poi a tenere le redini del gioco sono due musicisti che decidono quasi dal niente di registrare una sessione completamente improvvisata, le possibilità che la combinazione confluisca in un dialogo potente sono gustose già al solo pensiero.

 

Questo è quello che hanno fatto nel 2016 Matthew Shipp e Bobby Kapp, un duo che non lo era mai stato sino al momento in cui entrambi pensarono bene di tenere premuto il tasto REC prima di cominciare a suonare. Il risultato è un intreccio di linguaggi post-avanguardistici che non sottraggono spazio alle curiosità, sempre incoraggiate in modo acuto e rigoroso: la familiarità e i tempi di reazione che scaturiscono da un pezzo all’altro sono a un livello impressionante, che non incappa mai in contraddizioni o cali di tensione, ma che anzi tiene tutto costantemente in attività, come una conversazione privata tra vecchi amici. Shipp e Kapp sono nudi l’uno davanti all’altro e a nessuno dei due è concesso nascondersi, rendendo tesa e palpabile l’energia che li attraversa. Il che sembra particolarmente vero quando a incontrarsi sono pianoforte e batteria, poiché la natura percussiva di entrambi gli strumenti non solo sopperisce alle differenze timbriche, ma fa sì che si creino intersezioni modulate su più piani. Il fatto poi che Shipp abbia sempre manifestato una forte tendenza alla ritmicità (dai tempi della scena free jazz newyorchese di fine anni ‘80 ai lavori con William Parker e Roscoe Mitchell) invigorisce ulteriormente i nuclei di impianto, tanto da lasciar intendere che in alcuni passaggi abbia voglia di comportarsi come un secondo batterista.

 

Un altro aspetto significativo è la completa padronanza tonale, anche da parte del batterista – il che potrebbe risultare una contraddizione in termini, ma non è che uno dei tasselli indispensabili per elaborare la conversazione e articolarla senza ostacoli.

Si sente molto di questo in Before, dove le movenze di coppia, oltre a essere sempre forti, passano dalla calma all’urgenza, al vorticoso e al meditativo con una serie di botta e risposta e di rimpalli gestiti con disinvolta prontezza. Entrambi afferrano e rilanciano spunti senza mai risultare invadenti o impreparati, rendendo la dimensione improvvisativa straordinariamente agile. Questo è il filo sottile su cui pende l’album: la costante costruzione di un equilibrio che non tiri mai la corda un centimetro oltre, ma che sia elastico abbastanza da poter reggere qualunque cosa l’uno lanci all’altro.

 

C.