ARITMIE episodio 15

Markus Stockhausen

Far Into The Stars è uno di quegli album che riescono a fare del titolo un biglietto da visita più significativo di qualsiasi altro tentativo di evocarne immagini e contenuti.

“Lontano tra le stelle” ci porta immediatamente in un tempo che non abbiamo mai vissuto, e che ci sembra tuttavia di conoscere da sempre. Ci parla da un punto dell’universo talmente distante, nello spazio e nei ricordi, che per qualche ragione siamo in grado di arrivare a sfiorare con il pensiero.

 

Proviamo adesso a convertire in suoni queste sensazioni, o meglio a percepire i suoni come spazio e a trattare il tempo come il palcoscenico su cui essi possono manifestarsi. Inizia a delinearsi un’idea di musica molto simile, se non corrispondente, a quella di un fenomeno fisico, un vero e proprio evento che si manifesta – il che sembrerebbe essere esattamente il contrario rispetto all’andamento astratto e inclassificabile con cui si tende di solito a definire l’arte dei suoni, concedendole tutt’al più una sommaria esistenza nel corso del tempo e dello spazio.

 

Suoni come presenza fisica, dunque. Suoni luminosi come stelle, suoni perduti in un angolo remoto della galassia, suoni che si combinano come pulviscolo nell’aria. L’esistenza della musica, sotto forma di colori, di spostamenti, di figure sulla tela, di pesi e di fantasie è una certezza, ed è quanto di più netto arrivi dal lavoro di Stockhausen.

Far Into The Stars è un elogio della materia sonora; un’architettura solenne e cristallina, che conferma una poetica asciutta a ogni passaggio dello sguardo lungo rilievi e intarsi. Muoversi attraverso i brani equivale un po’ ad allungare la mano fuori dal finestrino, lasciando che sulla pelle, un metro dopo l’altro, si appoggino le diverse direzioni del vento, il calore e la velocità.

 

Sicché ogni traccia dell’album si rende protagonista di un differente spezzone di viaggio, sempre nel segno di una mansuetudine timbrica che non agguanta l’orecchio pur di strappare l’attenzione, ma che incanta quella di chi è disposto a offrirla: sonorità vellutate, tratteggi ampi e oscillazioni che diventano ritmo, tenuti insieme da una tela a maglie larghe, che lasciano uscire e rientrare l’aria e i pensieri.

 

Dopo la title track iniziale, che per quasi un quarto d’ora affonda nell’esplorazione degli astri più remoti e silenziosi, comincia Encoer. L’ascolto di questo pezzo è insieme un rifugio dal mondo e un’espressione del medesimo; un concedere, per una volta, che sia il lirismo sottile a raccogliere e attutire il peso delle fatiche. La convivenza di sapori elegiaci, di tensioni che si dissolvono e di strutture in costante transizione, formano musica di una bellezza imperturbabile, tanto più drammatica e interiore quanto più lontana e lucente.

 

C.