ARITMIE episodio 37

Etta Scollo

Certa musica sembra fatta apposta per infilarsi nelle fessure più strette, come quelle piogge estive che inzuppano le crepe tra le zolle e continuano a scendere, scavando lentamente, fino a depositarsi sui fondali di argilla. È musica che insieme ci copre e ci scopre, che non mente, che non spintona tentando di rubare la scena, ma che non ci lascia scivolare via finché desideriamo rimanerle aggrappati. Mica poco, insomma.

 

Eppure, per scavalcare la linea sottile che separa la volontà di mettersi in gioco dal rimanere fermi immobili al riparo della propria ombra, è sufficiente fare un solo passo: il più difficile, il più scomodo, il più bello di tutti.

Il passo interiore nobilita le nostre sofferenze, assicurando al tempo trascorso con le idee e con i sentimenti quel valore che la bolla nera della solitudine inghiotte al posto nostro, togliendo aria e luce dalle stanze dei pensieri.

Il che ci porta necessariamente ad aprire la strada a una lunga serie di domande che trapassano il quotidiano senza sconti né doppie misure: in quali stanze vogliamo stare? Quali meritiamo? Quali abbiamo paura di aprire?

Se è vero che il ticchettio inesorabile dell’orologio è l’unica garanzia che la vita possa offrirci, vero è anche che solo nel tempo risiedono le scintille che ci portano verso l’unica destinazione che conti davvero: diventare noi stessi.

 

Con Il passo interiore Etta Scollo è riuscita a fare molto di più, servendosi di storie ed esistenze per infilarsi in quel fittissimo reticolato di sensazioni che da sempre albergano in minuscoli giacigli, sospesi su un mare in cui per qualche motivo non eravamo ancora riusciti a specchiarci.

A fare da tappeto è un’umanità sferzante, che partecipa luminosa e potentissima alle vicende interiori, facendo sì che il peso di ciò che è irreparabile si unisca alla promessa di voler guardare al domani con occhi sempre nuovi, nonostante tutto.

Etta si è allacciata alle esistenze con umanità infinita e lo ha fatto per tutti; è “diventata noi stessi” caricandosi in spalla le fatiche di un presente doloroso e scorticato, a cui per nessuna ragione dobbiamo rinunciare. Sarà probabilmente per questo che ogni ascolto ci procura l’illusione di trovarci immersi in musica che non ci era stata mai tanto vicina – ammesso che di illusione si tratti – e che non ci lascerà sprofondare nella sabbia di una realtà in cui sarebbe enormemente più facile nascondere la testa e fingere che nulla esista al di fuori di essa.

 

Non c’è una traccia dell’album di cui si possa dire il contrario; tutto partecipa alla creazione di un pianeta sonoro in cui vocale e strumentale si riconoscono come naturalmente complementari e si impastano come smalto sulla calce. Il primo pezzo, T’alzasti, scosta la tenda e lascia filtrare la voce di Etta così come sarà fino alla fine: incorruttibile, viscerale, immensa.

Se può sembrare ovvio intendere come intimo il rapporto con la propria voce, qui siamo costretti a ricrederci e a riconoscere che non vi sia limite alle profondità a cui il suono possa arrivare per innestarsi sulla parola. Non resta altro da fare che aprire le braccia e, come zolle, aspettare che arrivi la pioggia a inzupparci fino in fondo alle crepe.

 

Il passo interiore ci insegna a non rinunciare, a non lasciar cadere le armi, nemmeno quando si è rimasti intrappolati in una delle minuscole stanze del pensiero.

Il futuro non appartiene a chi dispone di tempo per occuparlo, ma a chi è disposto a fare il passo più difficile, più scomodo e più bello di tutti.

 

C.